giovedì 8 marzo 2018

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCA LO BUE

Francesca Lo Bue, Itinerari/Itinerarios, Società Editrice Dante Alighieri Roma 2017

Immaginate questa raccolta poetica come fosse una mappa cittadina. Si diramano corsi, strade, angiporti: ognuno di essi imbocca un percorso diverso e tende alla ricostruzione della biografia intellettuale dell’autrice. E una mappa, infatti, si staglia sulla copertina: vi troviamo rappresentato un Frammento della Forma Urbis, inciso a Roma ai tempi dell’imperatore Caracalla, tra 203 e 211 d. C., una delle prime ricostruzioni topografiche della città eterna.
Volendo, potremmo dire che il viaggio, e con esso il movimento, il tendere verso, sia il vero unico protagonista, il filo rosso che lega i componimenti della silloge. Non è un caso che uno di essi sia intitolato al Minotauro. Come è noto il mito greco ci consegna l’orribile storia di un mostro, semiumano e semitaurino, avvezzo a cibarsi di carne umana e rinchiuso in un labirinto cretese. Altrettanto ci consegna l’avvincente epos dell’eroe Teseo, la cui grandezza non risiede solo nella sconfitta del nemico, ma anche nell’astuzia di saper trovare la strada. Sentiamo le parole dell’autrice. Ella si chiede: “come fecero a costruire mura labirintiche…?... camminavano dietro stelle schive che illuminavano passi deformi e sentieri enigmatici…” (p. 128). Sembra quasi che il labirinto sia l’effetto, e non la causa, dell’enigma e della deformità circostante.
E l’enigma si dipana attraverso più filoni culturali: la spiritualità cristiana (Lontananza), il pensiero greco (Artemidoro, Antigone-Maria Stuarda) e orientale (Enkidu e Gilgamesh).
Ma qual è l’enigma che la poetessa cerca di sciogliere, affrontando “itinerari” – appunto – diversi? Nella molteplicità dei temi, uno mi sembra riornare tenacemente, ed è quello del tentativo di riscatto, di rivalsa dell’umile, dell’emarginato, dello straniero, dello sconfitto nei confronti di una realtà ostile e competitiva. Scorriamo i titoli: La bugia, Silenzio, La superbia, In solitudine, La prigione, Diseredati, Gli uomini residui, Lo straniero, Avidità.
Ne Lo straniero si dice che “mancano le parole all’enigma del domani…arriva l’estraneità e scivola tenue fra i capelli col grumo di una colpa antica” (p. 104). Sembra quasi che il mistero sia messo in relazione con una colpa ancestrale e che essa provochi “estraneità” e straniamento. Ne Gli uomini residui i protagonisti sono i minatori delle miniere, equiparati ad “angeli interrati” e ad “araldi rauchi”, ovvero messaggeri senza voce che dalle viscere della terra scavano “giacimenti, gallerie di labirinti” e le cui grida rimangono come “ghiaccio e vetri infranti”. Il finale della poesia poi apre a uno scenario titanico (si ricordi come il mito greco-latino sia un importante debito culturale del libro) in cui i minatori, novelle prede di Urano, “vogliono arrivare al cielo, scavando nell’argento della Luna” (p. 62).
In altri casi il conflitto tra l’io poetico e la realtà prende forme meno evidenti ma non meno pregnanti. In Gulliver si dice che “parole amare, vecchie untuose congiure, scavano sentieri nella carne” (p. 32). È come se fosse messo in scena un contrasto tra il singolo, portatore di una purezza primigenia e gli altri, massa informe animata da bieco interesse. In Burocrazia, poesia dal sapore kafkiano, l’interlocutore poetico, perso tra mucchi di carta stampata, è così apostrofato: “nella terra della prigione sei tramite, muovi le pedine dei sogni altrui, fra labirinti di amori confusi e sottili ostilità” (p. 54).
Ciò potrebbe farci pensare che la poesia della Lo Bue sia tragica, votata alla catastrofe. Non per nulla eroine indiscusse della raccolta sono Antigone e Maria Stuarda: le separa la realtà, le separano i secoli e i luoghi, ma esse sono emblematico caso di un destino umano di sconfitta privato e collettivo, vittime come sono di conflitti familiari cagionati e ingranditi da periodi storici ostili, principesse uccise dalla ragion di stato (p. 126).
Tuttavia se c’è dramma c’è anche concreto riscatto, fiducia nella rivincita morale dell’individuo offeso. E così arriviamo allo scioglimento dell’enigma. Il viaggio giunge a compimento. Il riscatto è nell’io, nella sua capacità di ricreare una realtà fausta nell’atto stesso di nominarla. È Poesia il testo culmine della raccolta: in esso non è la Lo Bue che parla, è l’essere umano, siamo tutti noi. Ecco cosa rimane all’afflitto, allo sconfitto: “una speranza di parole” poiché “la poesia ricostruisce, trasmuta” in quanto – dice – “sono aride le fonti della terra ma pronuncio il nome di Dio e tutto arriva” (p. 130). Qui Dio non è il Dio cristiano, è la forza creatrice interna al soggetto, la stessa che permette di affrontare l’horror vacui, la distruzione operata dall’aridità dei cuori umani.
Non a caso ricordiamoci l’etimologia della parola poeta, della parola poesia, ovvero il verbo greco ποιέω, “io faccio”. Qui Dio è il poeta che è in noi.
Roma, 7 marzo 2018 ---- Giovanni Rempiccia

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